Il nostro

Ciò che resta
  28 Ottobre 2019

Ciò che resta

Ilaria Solari

I significanti lavorano, organizzano, separano, come lʼago della bussola indicano lʼorientamento, al di là delle intenzioni e del volere: è una scoperta che unʼesperienza analitica dischiude con sorpresa, che decentra da una posizione di supposto governo e di agognato controllo da parte dellʼio; avviene lo si sappia o meno, eppure saggiarne qualcosa in una analisi mi pare possa fare una bella differenza. Una differenza non priva di conseguenze, che può aprire la strada a possibilità nuove, impensate, a unʼinventiva di cui nulla si conosce prima del suo avvento.

Con Freud e con Lacan, seguendo la celebre metafora del gioco degli scacchi, sappiamo che in quellʼesperienza senza pari che è unʼanalisi, la fine è inestricabilmente legata allʼinizio. Il tempo dellʼinizio, e dunque lʼentrata nel dispositivo analitico, è siglato dalla supposizione di un sapere ignoto, Altro, le cui formazioni, siano esse una faglia improvvisa e spaesante nel discorso o lʼidentico che torna nella ripetizione sintomatica, vengono investite di una credenza che spinge a domandare; a tale sapere un analista, con il suo atto e la sua presenza, si presta come supporto, senza tuttavia dare adito di detenerlo, o che in fondo lo si possa detenere, ma mostrandone piuttosto il buco. È un incontro su cui si gioca una scommessa cruciale, a cui occorre andarci senza sapere. Che fare di un buco può essere una domanda interessante, alcune creazioni artistiche che si situano nel campo di un Altro barrato danno prova che proprio un buco può essere qualcosa di assai prezioso, da valorizzare.

Riprendo un frammento del testo di Lacan, il Seminario è il XXV, letto con rigore lungo questʼanno. Di una lettura qualcosa resta al di là dei contenuti, e un testo, come insegna la storia del movimento psicoanalitico, può essere letto in molti modi. Ebbene, nella lettura condotta collettivamente durante questo anno qualcosa ha avuto il fulgore di un lampo, ove ad essere in primo piano nel testo era la questione del sapere, dellʼinsegnamento e della formazione nel campo della psicoanalisi. Nel bel mezzo di questo Seminario, in un inciso tanto minuto da sembrare una divagazione trascurabile, Lacan rammenta cosa significhi insegnare, e che cosa questo mestiere sui generis sia chiamato a custodire. Nellʼevocare sul filo dellʼetimologia lʼeffetto che lʼatto di insegnare lascia dietro di sé, sotto forma di impronte, tracce, segni, un atto che pertanto non lascia immutato chi lo riceve, egli prosegue precisando che, essenzialmente, insegnare “non è nientʼaltro che girare in tondo”.1 Non trasmettere un sapere precostituito da una posizione di padronanza, non promuovere la possibilità della sua trasmissione integrale, bensì girare in tondo. Girare in tondo come cifra dellʼinsegnamento, in special modo nel campo della psicoanalisi: ho trovato questo dire una chiave illuminante, un dire da cui mi è parso di poter estrapolare anche qualcosa di rilevante in

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relazione ad una cura che sceglie di farsi orientare dai principi del discorso psicoanalitico, che da quella supposizione inaugurale di sapere non recede sino al suo punto cieco.

Attorno allo stralcio citato – laddove la questione dellʼinsegnamento è noto aver toccato molto da vicino Lacan, e che dʼaltra parte in questo passo egli riconosce a Freud – qualcosa via via ha iniziato ad annodarsi. Un incontro di svariati anni fa: un incontro dal carattere inatteso come non avrebbe potuto essere diversamente, avvenuto nella cornice di un “Seminario propedeutico di psicoanalisi” offerto a studenti di psicologia e medicina. Un proposta discreta eppure esigente e decisa, che tanto più oggi mi pare rispondere allʼindicazione che attraversa il testo di Freud e di Lacan, secondo la quale non si tratta tanto di comprendere dei concetti, o meglio, di afferrarne il contenuto come essi fossero completamente dominabili ed elucidabili, e quindi trasmissibili, bensì di impegnarsi in una pratica che dai quei concetti e dai suoi principi si lasci orientare ed istruire.

“Unʼanalisi lacaniana è unʼanalisi didattica?”, era uno degli interrogativi che avevano animato quellʼappuntamento. Lʼaver ascoltato che lʼaccesso a questo campo del sapere avviene essenzialmente attraverso la propria analisi e che ciascuna analisi, se di questo si tratta, è unʼanalisi didattica, le cui scansioni concernono un tempo logico e sono toccate dalla dimensione fortuita della contingenza, aveva avuto un benefico effetto di spaesamento e un riverbero che conservo vivo nella memoria. Un effetto di risonanza che anticipa la comprensione, la sopravanza, e nonostante ciò, in maniera sorprendente, può toccare in modo indelebile. Il tempo dellʼincontro, con la sua irruzione – al di là del tempo nella sua dimensione immaginaria, sotto la forma di tappe dettate da una cronologia predefinita e normativa – segna una cesura, traccia una linea di demarcazione tra un prima e un dopo, lascia una scrittura.

Ritorno al passo tratto dal Seminario di Lacan: programmare anticipatamente che unʼanalisi sia didattica in virtù dellʼosservanza di determinati parametri, o anche che lo sia aprioristicamente una scuola di specializzazione in psicoterapia, che pure se orientata analiticamente da alcuni parametri non può prescindere, mi pare che scivolando verso un rapporto burocratico con il sapere, col sapere ad esempio che cosʼè uno psicoanalista e come questo potrà essere certificato e garantito, espunga quel punto evocato nel Seminario XXV, punto intrasmissibile, attorno a cui si stringe sempre più lʼultimo tempo di Lacan, nonché la fine di un percorso analitico; come indica il ricorso ai nodi, al cuore alberga un punto che non si lascia ghermire dalla parola e dal senso, che ne segnala piuttosto il limite, e pure muove a dire e a ricercare, a tentare ogni volta di dirne qualcosa in più.

Tale girare in tondo attribuito allʼinsegnare richiama altresì il movimento dei quattro discorsi, prodotto di uno sforzo di formalizzazione da cui si apprende che la posizione dalla quale si parla, si insegna, o si dirige una cura può produrre esiti notevolmente diversi, aprendo la via ad effetti di soggettivazione oppure ad altro, estromettendo ad esempio la possibilità che del soggetto, e dunque del desiderio e dellʼatto nella sua puntualità, possano darsi.

Quel punto che non si può che bordare è ciò che fa ostacolo alla possibilità che per lʼessere parlante via sia una linearità senza inciampo tra causa ed effetto, tra stimolo e risposta, che, contrariamente a quanto sostiene una certa retorica corrente, segna lʼabissale distanza dalle tante macchine che, finché non si guastano, hanno la facoltà di riprodurre ciò che sanno senza inconvenienti, né incertezze, spoglie tuttavia di quel sapore che lʼapprendere, se estratto dalla dimensione di anonimato e di isolamento a cui sempre più è spinto, può generare. Un sapere singolare dunque, che unʼesperienza analitica va a circoscrivere attraverso le leggi del linguaggio, sino ad approdare a ciò che è irriducibile a tali leggi universali. Un buco allʼinterno dellʼuniversalità del sapere, di cui la psicoanalisi insieme alla poesia, nella loro intima affinità, sono esempi preziosi.

Concludo con un passo di Lacan, ripreso durante il Convegno svoltosi a Torino nel 2010, “Dalla parte dellʼinconscio”. Siamo nel Seminario XI, nel paragrafo titolato da Miller, “La fiducia accordata allʼanalista”. Lacan qui enuncia: “Che significa, allora, questa fiducia? Attorno a cosa ruota? Indubbiamente, per colui che vi si affida (...) la questione può essere elisa. Essa non può esserlo per lo psicoanalista. La formazione dello psicoanalista esige che egli sappia, nel processo in cui conduce il suo paziente, attorno a cosa ruota il movimento. Egli deve sapere, a lui deve essere trasmesso, e in unʼesperienza ciò di cui si tratta. Questo punto-perno è ciò che designo (...) con il nome di desiderio dello psicoanalista”.2

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1 J. Lacan, Il Seminario, Libro XXV, Le moment de conclure, Lezione del 10 gennaio 1978, inedito [traduzione nostra].

2 J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 227.