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Il Nome del Padre: psicoanalisi e democrazia
  27 Luglio 2018

Il Nome-del-Padre: psicoanalisi e democrazia* Eric Laurent Come legare insieme, attraverso una congiunzione, la psicoanalisi e quella forma dominante della politica moderna che è la democrazia? C’è stato un tempo in cui la democrazia coesisteva con altre forme non democratiche della politica. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, non ci sono più alternative credibili. Questo non significa che la Cina e alcuni altri non facciano eccezione, ma tutti affermano, almeno a fior di labbra, di volere soltanto la democrazia. Questa unanimità ha potuto far pensare, ad autori come Francis Fukuyama che fosse arrivata la fine della storia, poco prima di eventi che vi avrebbero seriamente fatto obiezione. Constatiamo, più sobriamente, l’esistenza del desiderio di democrazia. Esso è formulato nei risultati, pubblicati, di un sondaggio del Pew Research Center, centro di ricerche indipendente di Washington, effettuato nel 2002 su 38.000 persone in quarantaquattro paesi, che testimoniava l’adesione amplissima dell’opinione pubblica del pianeta alla democrazia. Madeleine Allbright lo commentava recentemente: “Trovo molto interessante questo vasto sostegno alla democrazia. Da molto tempo sostengo che la democrazia non è solo un valore occidentale. Questo sondaggio lo dimostra”. La psicoanalisi non può certo beneficiare di un transfert tanto globale quanto quello della democrazia. La si pratica solo in alcune regioni del mondo. Sono precisamente delle regioni democratiche. È un fatto che solo le democrazie hanno prima permesso, tollerato, poi sostenuto l’emergere della psicoanalisi come discorso. La psicoanalisi si è innanzi tutto fatta accettare come disciplina clinica e Freud si è servito dell’autorizzazione medica per farla esistere. Da quando la psicoanalisi è stata accettata, Freud non ha mancato di mettere in luce le riflessioni critiche sulla civiltà che questa pratica gli ispirava. Andando al di là del tradizionale umanesimo medico, egli sottolineava le antinomie del soddisfacimento del soggetto e delle “esigenze della rinuncia pulsionale” che la civiltà imponeva. La psicoanalisi si è quindi molto presto affermata come discorso critico. Solo la forma democratica permette di accoglierla. Altrove, essa è stata denunciata come “scienza borghese” o ignorata. Tuttavia, non sempre democrazia e psicoanalisi vanno d’accordo. Quando la democrazia si identifica con la burocrazia che veglia sulla regolazione di tutto quel che può essere consumato nello spazio commerciale, omogeneo e globale, allora essa si preoccupa del carattere estraneo della pratica psicoanalitica. Si sforza di farla rientrare nel minestrone delle psicoterapie e di soffocarla sotto i regolamenti. Nei paesi democratici che hanno adottato questi regolamenti sussiste, con il nome di psicoanalisi, solo l’ombra di ciò che essa era. Il riparo che la psicoanalisi ha trovato nella democrazia è necessario ma non sufficiente. Esso rimane precario, per una ragione di struttura che dipende dalla natura stessa del legame sociale secondo la psicoanalisi. Per affrontarlo, Freud è partito in primo luogo dal rovescio della democrazia: l’orda primitiva, la monarchia, la Chiesa, l’esercito. In Freud l’approccio alla dimensione politica non è separabile dalla sua teoria della religione. La questione del potere è indissociabile dall’interrogazione sulle sorgenti della fede. Fin dall’Interpretazione dei sogni, con discrezione, è enunciato il ruolo di un padre nella genesi delle forme del potere e nelle religioni. In un certo senso, fin da quando ha intravisto il posto del padre come portatore del divieto dell’incesto nell’economia psichica, Freud ne ha fatto il perno della costruzione dell’edificio tanto sociale quanto religioso, indistinguibili a un primo approccio. È la sua prima parola, e anche l’ultima, che riprende in L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1938). L’antropologia politica di Freud è una teologia politica. Freud dedurrà la possibilità dell’eguaglianza democratica dall’identificazione al posto dell’Uno. Nella finzione di Totem e tabù, contratto sociale proiettato al limitare della storia, il cosiddetto darwinismo freudiano ha degli accenti molto hobbesiani. Il contratto sociale freudiano permette di liberarsi dell’angoscia a patto di rinunciare a ripetere l’assassinio del padre. La finzione freudiana fa dell’omicidio del padre originario il vero e proprio momento del contratto, il momento in cui si effettua la trasmutazione. In questo senso, essa è cristiana, come nota Lacan. È in un secondo tempo che si produce l’orda o la massa, forma sociale egalitaria. Il legame organico della legge e del crimine non permette a Freud di pensare che il carisma del capo possa costituire una fonte placata dell’autorità; né che l’assassinio originario potrà essere riassorbito nel sistema delle regole della civiltà. La pulsione di morte freudiana è come uno stato di natura che minaccia sempre la civiltà. Al cuore stesso del contratto, si ritrova il terrore fondatore che faceva regnare il padre dell’orda nello stato di natura. “Il capo della massa è ancor sempre il temuto padre primigenio, la massa continua a voler esser dominata da una violenza senza confini […]”. La costituzione del legame sociale, il fondamento pulsionale dell’identificazione non permette in alcun modo di contemplare una pace. Il padre dell’orda aveva a disposizione tutte le donne. Questo godimento senza limiti abita il capo che eredita da lui. Nel 1921, dopo aver formulato la seconda topica che dà al Superio tutto il suo posto, Freud riprende questa questione delle masse e dell’Io nella loro dialettica reciproca. Egli parte dal meccanismo dell’identificazione che governa la vita psichica per accostarsi alle masse molto strutturate. È il capitonaggio dei meccanismi di identificazione attraverso il leader che permette di produrre il legame sociale nuovo costitutivo delle masse organizzate. La Chiesa e l’Esercito, organizzazioni eponime, restano delle masse e i loro capi sono equivalenti al capo delle masse semplici. Il cuore delle organizzazioni racchiude lo stesso principio di illimitato sprigionato dalla massa primaria. Freud può così rendere conto della disciplina dell’esercito e del potere selvaggio di uccidere che lo accompagna. In il disagio della civiltà (1929), tratteggia l’ombra della guerra di religione che segue ciascuna di esse. Il carattere profondamente inquietante della massa organizzata gli permetterà di pensare gli odiosi funzionamenti del partito unico degli anni Trenta. Farà riferimento tanto all’antisemitismo nazionalsocialista quanto alle malversazioni del potere sovietico. Nella sua analisi del posto del capo, Freud troverà la radice di quel che Max Weber nel 1921 isolava come “carisma”, nelle tre fonti di legittimità che distingueva. La monarchia si legittima a partire dalla tradizione, la burocrazia si autorizza a partire dal comando razionale. La Germania, dopo la disfatta del 1920, è toccata in questi due registri. Ecco perché, nella modernizzazione del sistema bismarckiano, Max Weber parteggia per un parlamentarismo che si appoggi su un capo carismatico. A esso vanno i suoi auspici e vi crede senza riserve. Qui si sente tutta la differenza da Freud. Weber può discernere la logica dell’avvenire e le vie che la politica tedesca seguirà. Solo Freud può rendere conto dell’oscillazione possibile del leader carismatico in nemico del genere umano. Il supplemento carismatico è necessario nella democrazia nella misura in cui la Rivoluzione francese ha attaccato lo statuto tradizionale del Padre. La rottura con la tradizione ha permesso di distinguere quello che in essa era confuso. Permetterà di distinguere la funzione logica del padre e l’esistenza, uno per uno, dei padri che realizzano questa funzione. Freud ha presentato questa funzione sotto una forma mitica: « il complesso di Edipo » . A Lacan restava di dargli una forma logica, sulla scia dei risultati raggiunti dall’antropologia sociale La pluralità dei padri è anche quella delle diverse comunità che compongono le società contemporanee. La funzione logica, che vale « per tutti » i padri, è il « Nome-del-Padre ». Questa mal si adatta ai Diritti dell’uomo. Il primo effetto di questo disagio è di scomporre il « Nome » nella molteplicità delle differenti funzioni attribuite al padre. Lacan chiama la pluralizzazione così realizzata « i Nomi-del-Padre ». Si passa dal discorso teologico-politico sull’essenza del padre all’esame delle componenti di un « concetto a largo spettro », come direbbe il filosofo Hillary Putnam. Il leader democratico cerca di giustificare l’esercizio del suo potere sia con la necessaria amministrazione delle cose sia con il mantenimento dello spazio pubblico come luogo di dibattito sempre aperto. In Francia, la scuola di Claude Lefort, negli Stati Uniti quella di John Rawls, in Germania quella di Jurgen Habermans, condividono questa ricerca di un punto di appoggio fondato sull’irriducibile delle concezioni, su un’impossibilità di trovare la buona forma di governo. Da questo « luogo di nessuna parte » potrebbe fondarsi l’uguale sollecitudine dello Stato nei confronti dei cittadini. La finzione regolatrice vuota così creata sarebbe particolarmente adatta alle società post-totalitarie e post-moderne. Essa enuncia una concezione che rende compatibile l’irriducibile delle concezioni del bene di ciascuno e l’esistenza di luoghi di arbitraggio e di decisione. E’ un posto di padre morto. Questo sogno di uno spazio fittizio regolatore ci viene proposto quando assistiamo alle manifestazioni di religiosità stridenti, di populismi scapigliati, di comunità ferocemente giustapposte, poco articolate allo spazio pubblico. Forzando il tiro, sembra legarle soltanto un mercato comune e delle regole giuridiche ridotte allo statuto di linguaggio strumentale minimo. Le comunità in pericolo di ripiegamento rischiano di parlare soltanto attraverso i passaggi all’atto. Essi ci ricordano il mistero del patto sociale, dell’assassinio e del terrore che racchiude. I soggetti si identificano sempre peggio alle storie famigliari piene di buchi, fatte più di rotture che di continuità. Restano allora le comunità. Alcune nuove comunità religiose, fondate sull’adesione individuale e brutale nei momenti di rottura, fanno impallidire le antiche cerimonie. L’adesione comunitaria con il favore del momento. L’appello al rispetto del patto sociale giustifica tutti i giorni la nascita di nuove « autorità ». Più si autorizzano a partire dall’ideale e più sono intrattabili. La dedizione alla comunità si realizza nell’obbedienza fino alla morte. Lo scopo ultimo delle sette è di liquidare i suoi membri. In una società laica, il giudice può punire. Per questo lo si ama o lo si odia. Il transfert sul giudice ne fa un eroe democratico. Resta sempre al di qua di quello che gli viene domandato. Ha un bel punire, questo non sarà mai sufficiente. Non appagherà mai la sete di punizione che può condurre alla carneficina. Il Superio vuole sempre di più. Così lungi dall’assistere all’estensione di una politica concepita come procedure di arbitraggio e di rispetto delle norme, assistiamo all’estensione dello stato di eccezione. Le « nuove autorità » dichiarano volentieri la sospensione dei Diritti dell’uomo nella loro comunità di discorso. Al tempo stesso, il garante supremo dello stato di diritto, il Presidente degli Stati Uniti, dichiara lo stato di eccezione per un sempre maggior numero di soggetti. I ricorsi alle nuove autorità testimoniano di una nostalgia patologica del Nome-del-Padre in una nuova configurazione della civiltà. J.-A. Miller la definisce come “esplosa, dispersa, intotalizzabile, una molteplicità inconsistente (Cantor), un non-tutto (Lacan)”. La forma attuale della civiltà è perfettamente compatibile con il caos. Si tratta di ciò che il saggio di Antonio Negri e Michael Hardt chiama “l’assenza di limiti della nostra civiltà”. La civiltà non ha nessun bisogno di un tutto armonioso e non lo sogna nemmeno. Alain Joxe lo riassume con il suo titolo L’impero del caos. I mercati comuni, regolati burocraticamente, sono del passato. Noi siamo nel regno dell’incertezza del mercato globale. I mercati cercano un significante padrone e non lo trovano. I grandi regolatori deludono uno dopo l’altro: gli uffici di auditing, lo Stato, i direttori delle banche centrali. Anche Alan Greenspan, il direttore della Banca federale americana, il nec plus ultra, è toccato dal sospetto. Il miglior modo per caratterizzare la situazione dei mercati mondiali è qualificarli come illeggibili. Per noi è un modo di intendere il detto di Lacan secondo cui un significante padrone è indispensabile per leggere uno scritto. Ecco perché dobbiamo tener in conto due facce della soggettività contemporanea. Da un lato, l’autorità del Nome-del-Padre tramonta, abbiamo il fenomeno del “crepuscolo del dovere” come lo ha chiamato Gilles Lipovetsky e dall’altra troviamo le spinte-a-godere più svariate, l’overdose generalizzata. I fenomeni che rivelano il “crepuscolo del dovere” sono presentati in un modo molto eloquente da Gilles Lipovetsky: “Il dovere si scriveva in lettere maiuscole, noi lo miniaturizziamo; era severo, noi organizziamo degli shows ricreativi; ordinava la sottomissione incondizionata del desiderio alla legge, noi lo riconciliamo con il piacere ed il self-interest. Il “si deve” ha ceduto il passo all’incanto per la felicità, l’obbligo categorico alla stimolazione dei sensi, l’interdetto irrefragabile alle regolazioni a scelta”. L’autore percepisce bene come il declino dell’ideale si accompagna alle esigenze del godimento. Seguiamo le sue descrizioni aggiungendo che l’edonismo non si mantiene nei limiti del principio di piacere. La vera natura del Super-Io è un’esigenza pulsionale, con il suo potere di illimitatezza al di là di ogni piacere. La pulsione vi rivela tanto di più la sua faccia mortale. La manifestazione della pulsione di morte può prendere diverse maschere. L’overdose non si realizza solo nell’evidenza dei comportamenti suicidari dalle tossicomanie alle droghe dure. Il soggetto può ammazzarsi di lavoro, scegliere di praticare sport pericolosi, fare viaggi strani, voler essere astronauta dilettante, presentare un’appetenza multiforme per il rischio. Può anche scegliere il suicidio politico, farsi bomba umana, avvolgersi di dinamite e godere della propria morte. In tutti questi baccanali troviamo le manifestazioni della ricerca di una presenza dell’Altro in noi. Lo stesso godimento cattivo è in opera nel fantasma repressivo neo-totalitario e nel baccanale suicidario. Per essere veramente democratico, può lo psicoanalista pretendere di apportare al soggetto contemporaneo un alleggerimento della sua mancanza a godere di esistere? Come supportare l’inconsistenza dell’Altro senza per questo cedere all’imperativo del godimento del Super-Io? Le risposte che le diverse correnti psicoanalitiche danno a questa domanda costituiscono il contributo più interessante alla sfida democratica cui siamo confrontati. * Articolato pubblicato nel libro “Ma che vuole l’Italia? I paradossi della colpa: potere, donne corruzione”, ediz. Borla, Roma 2011